Anche l’autunno e l’inverno sono periodi di raccolta dei limoni, così come si colgono praticamente durante tutto l’anno dato che la pianta di limone presenta – in condizioni ambientali favorevoli – la naturale attitudine a fiorire e fruttificare più volte nel corso delle quattro stagioni.
Non è raro poter ammirare, in una pianta di limone, la contemporanea presenza di fiori e frutti. La rifiorenza del limone è indizio delle origini tropicali del limone, così come la peculiare sensibilità alle basse temperature. Per questo motivo il limone è più produttivo nel meridione d’Italia dove, in regioni come la Sicilia, si possono ottenere 4-5 ma anche 7 fioriture all’anno, a seconda della varietà di limoni e del metodo colturale adottato.
Altra particolarità del limone è che ogni fioritura genera frutti anche molto differenti nell’aspetto e nel sapore i quali, per essere distinti commercialmente, vengono indicati con denominazioni diverse.
In ogni caso i periodi principali per la fioritura del limone sono la primavera, da cui nascono i limoni invernali, e l’inizio dell’autunno, da cui nascono i limoni verdelli, che arrivano a maturazione nell’anno successivo.
Tre specialità che si alterneranno sulle tavole per tutto l’anno. In particolare la prima fioritura, che avviene da marzo a giugno, è quella più importante per quantità di fiori emessi e dà origine ai limoni primofiore (maturano in settembre-ottobre) ed ai limoni invernali, che maturano da dicembre ad aprile.
La seconda fioritura, che avviene da maggio a luglio, porta alla produzione dei limoni bianchetti (dal minor pregio commerciale), che maturano da marzo a maggio.
La terza fioritura ha luogo da agosto ad ottobre; quest’ultima si ottiene, in genere, in seguito a pratiche di forzatura (assenza di irrigazioni) e dà origine ai famosi limoni verdelli (molto utilizzati per la produzione del limoncello) ed ai limoni bastardi che maturano nell’estate-autunno dell’anno successivo.
Ovviamente quanto suddetto ha valore puramente indicativo poiché i periodi di fioritura e raccolta di limoni possono variare a seconda della latitudine così come variano al variare delle pratiche agronomiche adottate oltre che agli stimoli ambientali (temperatura, pioggia, etc.). Inoltre, anche le caratteristiche varietali incidono sulle fasi fenologiche della pianta (cioè i vari stadi del suo ciclo vitale), in particolare sulla fioritura.
Oltre alle diverse denominazioni attribuite ai frutti, l’opera di selezione compiuto dall’uomo ha portato all’individuazione di molte varietà di limoni. Le differenze tra una varietà di limone e l’altra emergono più che altro dall’aspetto dei frutti (dimensione, forma, colore della buccia) e dalla produttività.
Le varietà di limone più diffuse in Italia e di maggiore interesse agronomico sono:
Per necessità di sintesi ci siamo limitati alle varietà di limoni più diffuse ma ne esistono molte altre (il limone sfusato amalfitano, il variegato, il limone di Procida, etc.) ed ognuna di esse meriterebbe una trattazione a parte.
Diteci quali sono le varietà di limone che coltivate o che preferite, ne approfondiremo meglio le caratteristiche nei prossimi articoli.
Archiviata oramai la raccolta e la molitura delle olive, è giunto il momento di pianificare la potatura dell’ulivo. Ecco 5 regole fondamentali:
Accertatevi bene che l’olivo da potare sia entrato in riposo vegetativo. Capita infatti che in annate caratterizzate da siccità e sbalzi termici – come quella appena trascorsa – gli olivi tardino a sospendere la propria attività vegetativa. In questo caso sarebbe meglio rimandare la potatura degli olivi per evitare inutili stress alla pianta. Indicativamente al sud Italia la potatura degli ulivi può essere effettuata da gennaio a marzo, mentre al nord è preferibile attendere la fine dell’inverno (da marzo in poi).
Potare un olivo non significa semplicemente tagliare dei rami (o branche). Se vogliamo ottenere un olivo sano e produttivo bisogna adottare un “sistema di potatura”, usando le forbici con grande senso di rispetto ed evitando interventi drastici. E’ buona norma non asportare più di 1/3 del volume totale dell’albero, ciò al fine di evitare eccessivi stress alla pianta.
La forma naturale di un olivo è cespugliosa, con una chioma tendenzialmente globosa. Potando non dobbiamo stravolgerne la natura, ma modificarne gradualmente l’aspetto operando solo gli interventi necessari con elasticità ed evitando potature troppo severe (ad esempio capitozzature). Per raggiungere tale scopo è preferibile potare l’olivo sin dai primi anni di vita. La potatura deve seguire in modo adeguato la crescita della pianta; la tecnica da applicare varia infatti in base all’età della stessa.
Nei primi anni è opportuno effettuare la spollonatura dell’olivo, cioè eliminare polloni (rami sterili, che dipartono dal piede), rimuovere succhioni (su tronco e rami), rami secchi o malati.
Questo tipo di potatura deve essere necessariamente leggera ed è detta potatura di formazione. Dal 4°-5° di vita avremo una potatura di mantenimento. Lo scopo è appunto quello di mantenere e conservare la forma ottenuta. Si tratta quindi di interventi mirati per eliminare rami difettosi, malati o che si sviluppano verso l’interno della chioma. A questa segue la potatura di produzione: serve a mantenere la forma impostata nelle precedenti fasi, contenere lo sviluppo della chioma negli spazi assegnati dal sesto d’impianto ed assicurare un buon equilibrio vegeto-produttivo. Tale intervento ha lo scopo di distanziare le branche favorendone un’ottimale disposizione in modo da mantenerle ben illuminate e pienamente produttive.
Esistono diversi sistemi e metodi di potatura dell’olivo; tutti hanno però in comune l’obiettivo di non far crescere troppo i rami all’interno della chioma, lasciando che attraverso essa circolino liberamente aria e luce.
Obiettivo principale della potatura è ottimizzare la distribuzione dei frutti in modo omogeneo su tutti i rami e smorzare la naturale attitudine dell’ulivo a produrre ad anni alterni (cd. alternanza).
Molto impiegata è la forma di allevamento a “vaso policonico”.Questa si presenta come la forma ideale per esaltare la produttività e ridurre i costi di potatura e raccolta. Per ottenere tale forma è necessaria una potatura annuale ma leggera con tagli frequenti e mirati. Le relative operazioni di taglio dovrebbero essere infatti limitate all’indispensabile con tagli di diametro non superiore ai 10-12 cm.
Si procede col taglio dall’alto verso il basso e man mano che si avanza si intervenire sulle branche eliminando quelle sovrapposte o danneggiate e raccorciando quelle che si sono eccessivamente allungate. Meglio effettuare prima i tagli grossi e poi quelli di minor diametro, si avrà così una migliore percezione della densità.
Il taglio deve essere netto e deciso. Il taglio corretto deve presentare una superficie regolare, liscia e inclinata, in modo da far scorrere via l’acqua piovana evitando l’accumulo di umidità e connessi rischi di marcescenza del legno.
E’ essenziale, inoltre, utilizzare gli attrezzi adatti (forbici, seghetto, motosega, etc.) che dovranno essere puliti, disinfettati e ben affilati. La manutenzione degli utensili da taglio è spesso trascurata è ciò rappresenta un grave errore. Una forbice male affilata lascia un taglio sfilacciato e, ancor peggio, non disinfettata può essere vettore di patologie anche gravi.
Meglio spendere 10 minuti in più per preparare al meglio gli attrezzi piuttosto che operare tagli sbagliati e, fatto ancor più grave, rischiare di fare ammalare i nostri olivi.
La vangatura è un’operazione semplice ma di estrema importanza per il terreno. Si tratta di una lavorazione che si prefigge lo scopo di creare un ambiente fisico più ospitale per le piante che verranno seminate o trapiantate nei cicli successivi.
Ha, in sostanza, lo stesso obiettivo dell’aratura ma si pratica senza l’ausilio di mezzi meccanici facendo affidamento solo su strumenti manuali (vanga e zappa) o, al massimo, di potenza limitata (motozappa).
La vangatura consiste essenzialmente nel rivoltamento delle zolle del terreno fino a una profondità che può variare tra i 20 ed i 30 centimetri.
L’epoca ideale per la vangatura è l’autunno, periodo in cui il terreno è umido al punto giusto senza essere eccessivamente bagnato o zuppo (si dice che “è in tempera”).
In queste condizioni il terreno può essere lavorato, più o meno facilmente, in modo da rendere più soffice il letto di semina/trapianto e più agevole la germinazione e l’esplorazione radicale della porzione di suolo limitrofo (detta rizosfera in modo difficile), fonte di acqua ed elementi nutritivi.
Una buona vangatura aumenta gli scambi ossigenativi tra suolo ed atmosfera. La presenza di ossigeno nel terreno è fondamentale essendo, anche se non tutti lo sanno, il maggiore elemento – in termini di volume – presente nel terreno.
Succede però che nei terreni molto argillosi, soprattutto in seguito a forti piogge, il suolo si presenti troppo compatto e asfittico; ciò è deleterio per il normale sviluppo radicale e per l’assorbimento degli elementi.
Un terreno compattato, inoltre, comporta ulteriori svantaggi: un drenaggio insufficiente che aumenta il rischio di ristagno idrico e l’assenza di scambi gassosi con l’atmosfera che pregiudica il normale svolgimento dell’attività di microflora e fauna terricola utile. Quest’ultime componenti sono fondamentali per l’evoluzione dei processi di umificazione e mineralizzazione, in pratica, per la formazione del giusto grado di fertilità e strutturazione.
Il terreno quindi ricava molti vantaggi dalla vangatura. Dal punto di vista fisico, innanzitutto, ci permette di riportare in superficie gli strati più profondi ed aumentare la porzione di suolo esposta agli agenti atmosferici che disgregano le particelle terrose.
Dal punto di vista chimico, inoltre, proprio questa azione frantumante aumenta la porosità con l’effetto di mettere a disposizione dell’assorbimento radicale una maggior quantità di aria, acqua e nutrienti favorendone, per di più, la relativa traslocazione lungo il profilo del suolo.
Ulteriori vantaggi della vangatura:
Vangare un terreno, di per sé, è semplice ma abbastanza faticoso. Cosa bisogna fare:
E’ buona norma integrare la vangatura con una buona concimazione organica di fondo. In questo caso, però, è opportuno vangare più in profondità oppure operare una doppia vangatura lavorando il terreno in due fasi, prima in un senso e poi nell’altro.
Inoltre per chi ha l’esigenza di modificare la struttura o il pH del proprio terreno, può approfittare della vangatura per aggiungere le sostanze adatte come ammendanti e correttivi.
Buon lavoro!
Non è da tutti coltivare il pistacchio! Lo sanno bene gli agricoltori che si dedicano alla coltivazione di questa splendida pianta, tanto preziosa quanto avara in termini di produttività.
Il Pistacchio (Pistacia vera) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Anacardiaceae che include anche il mango, la acagiu, l’albero del pepe e il sommacco. Può raggiungere i 10 m di altezza ma cresce lentamente ed è molto longevo: può arrivare anche a 350 anni.
Abbastanza rustico come esigenze pedologiche, il Pistacchio si adatta bene a vari tipi di terreno, l’importante è che sia ben drenante, poiché non tollera i ristagni di umidità e che abbia un PH compreso tra 6-8.
La pianta di pistacchio non presenta particolari difficoltà di allevamento, ma bisogna aver pazienza perché si tratta di una pianta tardiva, che inizia a fruttificare dopo 5-6 anni dall’impianto. Ed occorrono circa 15 anni affinché l’albero di pistacchio entri in piena produttività, con produzioni che vanno da 20 a 30 chili per albero.
Il periodo della fioritura corrisponde con quello della primavera a marzo/aprile – in base alla varietà del pistacchio e all’altitudine dell’impianto – e dura una settimana. La raccolta del pistacchio va dalla fine di agosto fino alla fine di settembre.
Il pistacchio è un albero di clima desertico, benché esistano alcune varietà con maggiore tolleranza al freddo, arrivando perfino a sopportare -20° C.
Il sud Italia si presta bene alla coltivazione del pistacchio. Molto resistente alla siccità, in Sicilia viene coltivato su terreni calcarei e soprattutto su substrati di origine vulcanica. In questa regione vi è storicamente una coltivazione di nicchia molto rinomata; famosi sono, infatti, i pistacchi di Bronte e Adrano (prov. di Catania), tutelati dal marchio DOP “Pistacchio Verde di Bronte“.
Una piantagione di pistacchi deve essere di almeno mezzo ettaro, estensione che permette di realizzare un piccolo reddito. Per diventare
pistacchicultore si consiglia di coltivare almeno 5 ettari, in modo da realizzare un buon reddito.
Il Pistacchio è molto prezioso, un vero e proprio oro verde; ancora oggi sul mercato vengono piazzati ad un prezzo 4-5 volte maggiore di nocciole e mandorle.
Ogni tesoro ha il suo prezzo; la coltivazione del pistacchio ha bisogno di una particolare attenzione agronomica necessaria in quanto, per poter fruttificare, è indispensabile la presenza di una pianta pistacchio maschio, essendo una specie dioica.
Il pistacchio maschio, solitamente, fiorisce prima è ciò rende impossibile la fecondazione degli individui femminili nell’anno in corso. Anche per questo la migliore produzione dei pistacchi avviene ad anni alterni ma tale attitudine viene gestita dal pistacchicoltore per preservare la qualità del frutto ed evitare l’eccessivo sfruttamento.
Per ovviare a questi inconvenienti e per poter addomesticare al meglio la pianta, i coltivatori di pistacchio delle varietà nostrane hanno fatto i salti mortali. Lontani dalle tecniche dell’agricoltura industriale – più per necessità – che per scelta di vita, le loro mani sapienti hanno trovato il modo di aumentare la produttività innestando insieme piante maschio e femmina e affidandosi al polline del terebinto (Pistacia terebinthus) per la fecondazione, una specie selvatica affine.
La coltivazione industriale del pistacchio è, al contrario, molto più semplice ed ha, durante il secolo scorso, preso via via piede in diverse parti del mondo. Attualmente i maggiori produttori di pistacchio sono l’Iran, gli USA e la Turchia, paesi dove si può contare su impianti altamente specializzati o dove è disponibile ampia manodopera a basso costo.
Ma, lo sappiamo bene, quantità non sempre fa rima con qualità!
Bronte – una piccola cittadina alle falde dell’Etna. Nulla a che vedere con la coltivazione industriale. In questa zona iniziarono a coltivare il pistacchio solo nel XIX secolo ma quasi subito risultò essere la produzione migliore come dimostra ancora oggi il prezzo pagato sul mercato internazionale.
Forma allungata, esterno dal colore viola acceso e interno verde smeraldo, profumo delicato, gusto superiore e persistente, l’ingrediente perfetto per l’alta pasticceria. Sono queste le caratteristiche del Pistacchio di Bronte DOP.
Ma quanto lavoro per rendere coltivabili paesaggi brulli e scolpiti dalla lava, per addomesticare piante di pistacchio che sembrano sorgere direttamente dalla pietra scura, senza il filtro e il sostegno fornito dalla terra.
Gli alberi di pistacchio crescono abbarbicati alla roccia lavica, su di un terreno impraticabile ai macchinari. E si tratta di una pianta avara, che produce poco e saltuariamente, che richiede molta manodopera – soprattutto manuale – di agricoltori specializzati.
Quanta fatica per affermare il proprio riscatto dalla miseria, quanto sudore per rendere fertile ciò che prima era solo fuoco e deserto, tutto apparentemente infecondo. Una lotta impari tra clima avverso, territorio ostile e mille altre insidie.
Eppure la sfida fu raccolta e vinta, le piante di pistacchio innestate ed allevate, la lava frantumata e ordinata in piccole terrazze coltivate, i pistacchieti protetti da muri e recinti per arginare la forza del vento e la fame degli animali selvatici.
Ai giorni nostri si direbbe un’agricoltura eroica, tenace, anche testarda che identifica il proprio scopo nella volontà incrollabile di creare valore, non solo agronomico ma anche sociale e culturale. Un legame intimo con la terra che l’uomo, ormai da millenni, suggella tramite la coltivazione di questa pianta.
Io me li immagino così i coltivatori di Pistacchio: mi immagino che alla fine delle loro giornate di fatica, dopo aver raccolto, irrigato, potato, curato le proprie piante, sotto un pergolato tirino tutti insieme un bel sospiro di sollievo…! Perché me li immagino così?!?
Perché anche alla fine della giornata di lavoro più dura, tutto appare dolce se arriva un bel gelato cremoso al Pistacchio! Molto meglio se Pistacchio di Bronte DOP.
Salvatore Calabria
E’ inutile negarlo: i cambiamenti climatici incidono ed incideranno sempre più sulle vite di tutti noi! E gli effetti si toccano già con mano: aumentano le zone che soffrono di carenza idrica, siccità, desertificazione (ovvero l’ascesa in latitudine delle zone ove la vegetazione tipica non trova più l’optimum per i normali cicli vitali).
Sembra una impresa titanica, in effetti molti studi divergono sulle teorie dell’aumento delle temperature e sulle conseguenti modifiche climatiche, a volte anche disastrose, non solo fisicamente ma anche economicamente. È veramente un problema antropico, dovuto cioè all’espansione e alle pretese commerciali umane, o è solo una normale ciclicità ambientale (ricordiamo le ere e microere glaciali)?
Anche nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa, utilizzando le fonti energetiche rinnovabili invece che le risorse fossili di carbonio (petrolio e derivati, gas, carbone); ma anche adottando buone pratiche colturali e selvicolturali, aumentando la biodiversità, effettuando lavorazioni essenziali e oculate, e non per ultimo impiegando responsabilmente le risorse idriche.
Lo stiamo notando sempre più anche in Italia, pure in zone dove non si sarebbe mai immaginato di avere carenze idriche, anche sulle Alpi.
E’ necessario risparmiare il prezioso liquido, l’unico veramente indispensabile sul nostro pianeta. È necessario averne a disposizione per i momenti più critici delle nostre colture.
Questo spinge sempre più la ricerca a trovare metodi per risparmiare risorse idriche o addirittura usare fonti alternative di irrigazione.
Questo concetto si estremizza nell’utilizzo di acque salmastre o addirittura saline (ricordia
mo semplicemente che il 97% dell’acqua sul nostro pianeta è salata, e il 2% è indisponibile perché allo stato solido nei ghiacciai e nelle calotte polari).
Non è del tutto vero: il contatto diretto con acque ricche di sali (soprattutto sodio ma anche potassio, magnesio, etc.) influisce negativamente su microflora e microfauna, indispensabili per la corretta evoluzione fisica e chimica del suolo (ricordiamo tessitura e processi di umificazione). E oltretutto inibisce lo scambio osmotico radicale, ovvero il mezzo impiegato dai vegetali per assorbire l’acqua e i nutrienti in essa disciolti. Non per ultimo, potrebbe essere determinante per la scelta colturale, dato che molti sali o soluzioni da essi derivanti così possono modificare il pH del substrato, aumentando la salinità del terreno.
Il trucco consiste nell’evitare che i sali giungano o si accumulino in prossimità dell’apparato radicale, inibendone le funzioni osmotiche, coltivando su substrati ricchi di sabbie, molto drenanti quindi, e diffondendo l’acqua negli strati sottostanti la zona radicale. Facendo sì che il capillizio venga raggiunto dall’umidità dovuta all’evaporazione.
Naturalmente dobbiamo conoscere molto bene le tolleranze e il tipo di apparato radicale delle specie che si andranno a coltivare. Più profondo sarà l’apparato radicale, e più alto sarà il tenore di sali in soluzione, più in basso dovrà trovarsi la fonte di irrigazione.
Inoltre, maggiore sarà la piovosità media annua della stazione, maggiore sarà il dilavamento dei sali, minore il loro accumulo, e migliori i risultati.
Tale tecnica colturale potrà essere applicata quindi non solo a specie di interesse economico che tollerano bene alte concentrazioni di sali, come barbabietola, orzo e sorgo, ma anche a quelle meno tolleranti, come patate, pomodori e lattuga.