Il contenuto di succo d’arancia nelle aranciate passa dal 12 al 20%: ecco la buona notizia di questi giorni.
Per meglio precisare, dal 6 marzo il contenuto di succo d’arancia in bevande analcoliche prodotte in Italia e vendute con la dicitura in etichetta “arancia” in succo è aumentato per legge al 20 per cento minimo. L’entrata in vigore della nuova legge abroga la precedente datata 1961, non vieta la vendita di bevande al 12% ma solo la produzione, i negozi potranno quindi esaurirne le scorte.
Il traguardo è importante sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, come sottolinea la Coldiretti tramite le parole del presidente Roberto Moncalvo: “L’innalzamento della percentuale di succo di frutta nelle bibite va a migliorare concretamente la qualità dell’alimentazione e a ridurre le spese sanitarie dovute alle malattie connesse all’obesità in forte aumento”.
Infatti un maggior contenuto di vero succo d’arancia significa, prima di tutto, tutelare meglio la salute dei consumatori e rispondere in modo più adeguato alla mutata sensibilità del mercato. Inoltre, è anche compito delle istituzioni difendere e diffondere una corretta coltura alimentare, anche in base alle nuove evidenze scientifiche.
In tale ambito, alcuni recenti studi hanno posto l’accento sul fatto che una bevanda con il 20% di succo d’arancia aiuti a soddisfare il fabbisogno giornaliero di vitamina C con ovvi benefici per il sistema immunitario. Ed ancora, più succo di frutta significa minor impiego di zucchero ed aromi artificiali, ingredienti generalmente utilizzati per correggere il sapore dei trasformati.
Altra conseguenza fondamentale del provvedimento è il positivo impatto economico sulle aziende agricole ed agrumicole in particolare. Sempre secondo la Coldiretti, questa disposizione salverà oltre diecimila ettari di agrumeti italiani situati soprattutto in Sicilia e Calabria. Infatti l’aumento del contenuto di frutta dal 12 al 20 per cento minimo comporterebbe l’impiego di oltre 200 milioni di chili di agrumi in più all’anno nell’industria di trasformazione.
I vantaggi per il comparto agrumicolo nazionale sarebbero evidenti considerando anche i prezzi che vengono pagati agli agricoltori (3-4 cent per un kg di arance destinate alla trasformazione), e la profonda crisi del settore che ha visto ridursi di un terzo, in quasi 20 anni, la superficie coltivata ad arancio con redditi che diminuiscono ogni annata.
Ovviamente tali positive ricadute sono strettamente connesse alla valorizzazione ed alla difesa delle produzioni nazionali che, però, non sempre vengono adeguatamente tutelate. Si auspica, in tal senso, un più efficace controllo della filiera agroalimentare ed una maggiore tracciabilità dei vari passaggi. Anche perché maggior sicurezza significa maggior libertà di scelta quando andiamo a fare la spesa. E la nostra sicurezza passa, innanzitutto, dalla trasparenza delle informazioni fornite dalle aziende e che troviamo presenti per legge su tutti i prodotti agroalimentari.
Come consiglio finale, quindi, leggete bene l’etichetta ed accertatevi che il succo d’arancia che state acquistando risponda esattamente alle vostre aspettative.
Buona bevuta a tutti!
Anche l’autunno e l’inverno sono periodi di raccolta dei limoni, così come si colgono praticamente durante tutto l’anno dato che la pianta di limone presenta – in condizioni ambientali favorevoli – la naturale attitudine a fiorire e fruttificare più volte nel corso delle quattro stagioni.
Non è raro poter ammirare, in una pianta di limone, la contemporanea presenza di fiori e frutti. La rifiorenza del limone è indizio delle origini tropicali del limone, così come la peculiare sensibilità alle basse temperature. Per questo motivo il limone è più produttivo nel meridione d’Italia dove, in regioni come la Sicilia, si possono ottenere 4-5 ma anche 7 fioriture all’anno, a seconda della varietà di limoni e del metodo colturale adottato.
Altra particolarità del limone è che ogni fioritura genera frutti anche molto differenti nell’aspetto e nel sapore i quali, per essere distinti commercialmente, vengono indicati con denominazioni diverse.
In ogni caso i periodi principali per la fioritura del limone sono la primavera, da cui nascono i limoni invernali, e l’inizio dell’autunno, da cui nascono i limoni verdelli, che arrivano a maturazione nell’anno successivo.
Tre specialità che si alterneranno sulle tavole per tutto l’anno. In particolare la prima fioritura, che avviene da marzo a giugno, è quella più importante per quantità di fiori emessi e dà origine ai limoni primofiore (maturano in settembre-ottobre) ed ai limoni invernali, che maturano da dicembre ad aprile.
La seconda fioritura, che avviene da maggio a luglio, porta alla produzione dei limoni bianchetti (dal minor pregio commerciale), che maturano da marzo a maggio.
La terza fioritura ha luogo da agosto ad ottobre; quest’ultima si ottiene, in genere, in seguito a pratiche di forzatura (assenza di irrigazioni) e dà origine ai famosi limoni verdelli (molto utilizzati per la produzione del limoncello) ed ai limoni bastardi che maturano nell’estate-autunno dell’anno successivo.
Ovviamente quanto suddetto ha valore puramente indicativo poiché i periodi di fioritura e raccolta di limoni possono variare a seconda della latitudine così come variano al variare delle pratiche agronomiche adottate oltre che agli stimoli ambientali (temperatura, pioggia, etc.). Inoltre, anche le caratteristiche varietali incidono sulle fasi fenologiche della pianta (cioè i vari stadi del suo ciclo vitale), in particolare sulla fioritura.
Oltre alle diverse denominazioni attribuite ai frutti, l’opera di selezione compiuto dall’uomo ha portato all’individuazione di molte varietà di limoni. Le differenze tra una varietà di limone e l’altra emergono più che altro dall’aspetto dei frutti (dimensione, forma, colore della buccia) e dalla produttività.
Le varietà di limone più diffuse in Italia e di maggiore interesse agronomico sono:
Per necessità di sintesi ci siamo limitati alle varietà di limoni più diffuse ma ne esistono molte altre (il limone sfusato amalfitano, il variegato, il limone di Procida, etc.) ed ognuna di esse meriterebbe una trattazione a parte.
Diteci quali sono le varietà di limone che coltivate o che preferite, ne approfondiremo meglio le caratteristiche nei prossimi articoli.
Non è da tutti coltivare il pistacchio! Lo sanno bene gli agricoltori che si dedicano alla coltivazione di questa splendida pianta, tanto preziosa quanto avara in termini di produttività.
Il Pistacchio (Pistacia vera) è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Anacardiaceae che include anche il mango, la acagiu, l’albero del pepe e il sommacco. Può raggiungere i 10 m di altezza ma cresce lentamente ed è molto longevo: può arrivare anche a 350 anni.
Abbastanza rustico come esigenze pedologiche, il Pistacchio si adatta bene a vari tipi di terreno, l’importante è che sia ben drenante, poiché non tollera i ristagni di umidità e che abbia un PH compreso tra 6-8.
La pianta di pistacchio non presenta particolari difficoltà di allevamento, ma bisogna aver pazienza perché si tratta di una pianta tardiva, che inizia a fruttificare dopo 5-6 anni dall’impianto. Ed occorrono circa 15 anni affinché l’albero di pistacchio entri in piena produttività, con produzioni che vanno da 20 a 30 chili per albero.
Il periodo della fioritura corrisponde con quello della primavera a marzo/aprile – in base alla varietà del pistacchio e all’altitudine dell’impianto – e dura una settimana. La raccolta del pistacchio va dalla fine di agosto fino alla fine di settembre.
Il pistacchio è un albero di clima desertico, benché esistano alcune varietà con maggiore tolleranza al freddo, arrivando perfino a sopportare -20° C.
Il sud Italia si presta bene alla coltivazione del pistacchio. Molto resistente alla siccità, in Sicilia viene coltivato su terreni calcarei e soprattutto su substrati di origine vulcanica. In questa regione vi è storicamente una coltivazione di nicchia molto rinomata; famosi sono, infatti, i pistacchi di Bronte e Adrano (prov. di Catania), tutelati dal marchio DOP “Pistacchio Verde di Bronte“.
Una piantagione di pistacchi deve essere di almeno mezzo ettaro, estensione che permette di realizzare un piccolo reddito. Per diventare
pistacchicultore si consiglia di coltivare almeno 5 ettari, in modo da realizzare un buon reddito.
Il Pistacchio è molto prezioso, un vero e proprio oro verde; ancora oggi sul mercato vengono piazzati ad un prezzo 4-5 volte maggiore di nocciole e mandorle.
Ogni tesoro ha il suo prezzo; la coltivazione del pistacchio ha bisogno di una particolare attenzione agronomica necessaria in quanto, per poter fruttificare, è indispensabile la presenza di una pianta pistacchio maschio, essendo una specie dioica.
Il pistacchio maschio, solitamente, fiorisce prima è ciò rende impossibile la fecondazione degli individui femminili nell’anno in corso. Anche per questo la migliore produzione dei pistacchi avviene ad anni alterni ma tale attitudine viene gestita dal pistacchicoltore per preservare la qualità del frutto ed evitare l’eccessivo sfruttamento.
Per ovviare a questi inconvenienti e per poter addomesticare al meglio la pianta, i coltivatori di pistacchio delle varietà nostrane hanno fatto i salti mortali. Lontani dalle tecniche dell’agricoltura industriale – più per necessità – che per scelta di vita, le loro mani sapienti hanno trovato il modo di aumentare la produttività innestando insieme piante maschio e femmina e affidandosi al polline del terebinto (Pistacia terebinthus) per la fecondazione, una specie selvatica affine.
La coltivazione industriale del pistacchio è, al contrario, molto più semplice ed ha, durante il secolo scorso, preso via via piede in diverse parti del mondo. Attualmente i maggiori produttori di pistacchio sono l’Iran, gli USA e la Turchia, paesi dove si può contare su impianti altamente specializzati o dove è disponibile ampia manodopera a basso costo.
Ma, lo sappiamo bene, quantità non sempre fa rima con qualità!
Bronte – una piccola cittadina alle falde dell’Etna. Nulla a che vedere con la coltivazione industriale. In questa zona iniziarono a coltivare il pistacchio solo nel XIX secolo ma quasi subito risultò essere la produzione migliore come dimostra ancora oggi il prezzo pagato sul mercato internazionale.
Forma allungata, esterno dal colore viola acceso e interno verde smeraldo, profumo delicato, gusto superiore e persistente, l’ingrediente perfetto per l’alta pasticceria. Sono queste le caratteristiche del Pistacchio di Bronte DOP.
Ma quanto lavoro per rendere coltivabili paesaggi brulli e scolpiti dalla lava, per addomesticare piante di pistacchio che sembrano sorgere direttamente dalla pietra scura, senza il filtro e il sostegno fornito dalla terra.
Gli alberi di pistacchio crescono abbarbicati alla roccia lavica, su di un terreno impraticabile ai macchinari. E si tratta di una pianta avara, che produce poco e saltuariamente, che richiede molta manodopera – soprattutto manuale – di agricoltori specializzati.
Quanta fatica per affermare il proprio riscatto dalla miseria, quanto sudore per rendere fertile ciò che prima era solo fuoco e deserto, tutto apparentemente infecondo. Una lotta impari tra clima avverso, territorio ostile e mille altre insidie.
Eppure la sfida fu raccolta e vinta, le piante di pistacchio innestate ed allevate, la lava frantumata e ordinata in piccole terrazze coltivate, i pistacchieti protetti da muri e recinti per arginare la forza del vento e la fame degli animali selvatici.
Ai giorni nostri si direbbe un’agricoltura eroica, tenace, anche testarda che identifica il proprio scopo nella volontà incrollabile di creare valore, non solo agronomico ma anche sociale e culturale. Un legame intimo con la terra che l’uomo, ormai da millenni, suggella tramite la coltivazione di questa pianta.
Io me li immagino così i coltivatori di Pistacchio: mi immagino che alla fine delle loro giornate di fatica, dopo aver raccolto, irrigato, potato, curato le proprie piante, sotto un pergolato tirino tutti insieme un bel sospiro di sollievo…! Perché me li immagino così?!?
Perché anche alla fine della giornata di lavoro più dura, tutto appare dolce se arriva un bel gelato cremoso al Pistacchio! Molto meglio se Pistacchio di Bronte DOP.
Salvatore Calabria
Coltivare è un gesto antico, arcaico, sapiente. Non a caso coltivare e cultura hanno la stessa etimologia, dal latino colĕre, appunto coltivare.
Coltivare un orto significa coltivare un sapere, una conoscenza che ha a che fare con dei gesti precisi e coscienti.
Coltivare significa imparare. Imparare a conoscere sé stessi innanzitutto, gli esseri viventi, il funzionamento di una comunità (biologica), l’importanza di curare un bene collettivo (l’ambiente) che spesso dimentichiamo nelle nostre vite complicate.
Tutti dovrebbero avere la possibilità di coltivare un orto, un pezzo di terra, proprio o in affitto, anche piccolo: la dimensione non conta, bastano 30 mq.
Coltivare un orto è un’attività che coinvolge non solo l’abilità manuale, ma stimola anche le conoscenze scientifiche e lo sviluppo del pensiero logico. Prendersi cura di un orto implica attenzione ai particolari, ai tempi d’attesa, educa alla pazienza ed alla lungimiranza.
La scelta dei prodotti da coltivare, inoltre, aiuta a riconoscere le tradizioni locali e familiari. Coltivare l’orto unisce l’approccio creativo e l’educazione ambientale, consente di avvicinarsi alla vita all’aperto, al rispetto dei tempi della natura, all’impegno, alla regolarità ed alla determinazione, permette l’osservazione diretta dei fenomeni naturali favorendo l’integrazione uomo-ambiente. L’orto è da curare come un piccolo fazzoletto di natura.
L’orto è un laboratorio vivente dove manualità e conoscenza possono esprimersi sperimentando odori, colori, sapori e sensazioni diverse ma sempre legate dalla passione per la terra.
Seminare o trapiantare, seguire l’accrescimento della pianta, prendersene cura ogni giorno fino a raccoglierne il frutto migliora la percezione delle proprie capacità, ci fa credere di più in noi stessi perché rende concreto il nostro impegno.
Coltivare l’orto è un’attività senza controindicazioni se non quella che una volta iniziata è difficile smettere. L’orto va bene da 0 a 101 anni ed è democratico perché va bene per tutti: poveri, ricchi, bianchi, neri, gialli.
Ci dovrebbe essere un orto in ogni scuola, carcere, contrada, quartiere, paese, città. Ci dovrebbe essere un orto in ogni terrazzo o balcone. Il nostro pianeta sarebbe più verde, più colorato; la gente sarebbe più felice, sorridente, più sensibile, meno aggressiva, socializzerebbe di più e meglio, forse anche senza categorie e preconcetti.
L’orto eleva l’ingegno, il carattere, la salute, la fiducia in sé stessi; l’orto dovrebbe essere patrimonio mondiale dell’umanità!
In fin dei conti sono un inguaribile ottimista: mi piace pensare che coltivando un orto saremmo tutti più rispettosi della natura, del prossimo e, soprattutto, di noi stessi!
Allora la prossima volta che al semaforo vi manderanno a zappare … rispondetegli con un sorriso 😊